VADO FUORI A FUMARE di Venanzio Tuveri

 


No, non ci sono andato spontaneamente. Mi ci hanno costretto, perché ormai non c’è più una briciola di rispetto nei confronti dei fumatori, di quelli che, nel bene e nel male, mantengono in piedi l’Italia con il loro contributo quotidiano. Siamo noi che paghiamo le tasse e che, per amore del nostro paese, ma anche perché siamo affezionati alla marca, pure quando andiamo all’estero ci portiamo le nostre sigarette. E all’estero esportiamo i nostri fumi già fumati e le nostre cicche, non i nostri capitali, come ormai usa la gente per bene. In balcone avrei fumato sereno, ma in quel momento transitava la processione del santo locale trascinato sulle spalle di una decina di uomini forti: una statua di due quintali con cavallo e aratro incorporati. Più che di una statua si tratta però di un insieme paesaggistico, ma noi siamo fatti così. La vista del santo e del cavallo mi ha fatto tornare in mente la sua storia, cioè quella di un uomo che, stanco di fare le crociate e di combattere i turchi, si era interamente dedicato alla coltivazione delle sue terre e a insegnare agli ignoranti l’arte degli innesti della vite e dell’ulivo. Con gli anni era diventato un produttore riverito da regnanti, marchesi e vescovi, che accorrevano famelici e assetati per acquistare i suoi prodotti. Nel corso della processione non si porta infatti un uomo a cavallo, come per fare un esempio con san Giorgio che stende il drago, ma un sant’uomo che tiene l’aratro trainato da un cavallo tra i filari delle vigne. Un santo come si deve, che i fedeli amano ricordare insieme alla sua fedele bestia e al suo strumento di lavoro, anche se purtroppo, e la storia si ripete da un pezzo, ogni anno ci si dimentica di piantare prima della processione, accanto all’aratro, al cavallo e al santo, le viti. Per rispetto verso la sua figura e quella dei preti operai ho spento la sigaretta, salvo poi fumarne due di seguito quando la processione ha svoltato l’angolo.
Poi sono tornato tra ospiti e familiari intolleranti, ai quali prima avevo obiettato, per farli sentire in colpa, che era primavera e che si potevano aprire le finestre. La loro risposta? Che in genere la primavera arriva dopo Pasqua e che io non ho alcun diritto di infliggere avvelenamenti al mio prossimo.
Sarà pure vero, ma non c’è più comprensione e solidarietà umana. A ogni modo la processione e il santo-aratro-cavallo portato a spasso mi hanno elevato i pensieri portandomi ad avere una visione straordinaria. Mi trovavo in mezzo al deserto con all’orizzonte un sole prossimo al tramonto. Fumavo la mia sigaretta light con la schiena contro un masso mentre loro, familiari e ospiti, spaparanzati su comodi divani, discutevano, anzi litigavano, sulla quantità di bevande da ingurgitare. No, versane ancora, diceva uno, voglio il bicchiere da un litro, no, meglio, riempimi questo secchio, replicava l’altro, e poi il terzo, il quarto e... cose di questo genere, un coro unico, da schifo. Accanto a loro un’autobotte, di quelle che usano per trasportare gasolio da riscaldamento, e un uomo che teneva la pompa e versava impavido. Ma non conteneva gasolio, l’autobotte. La scritta sulle fiancate era chiara: coca-cola.

Venanzio Tuveri