In quel periodo non ero politicamente coinvolta, ero ancora troppo giovane e poco interessata alla contestazione. Inoltre non avevo proprio tempo, dovevo lavorare per mantenermi agli studi. Questa era la convinzione e unico scopo nella vita (fare soldi) dei miei genitori, arrivati a Milano dal paese senza il becco di un quattrino. Lavoravo qualche ora a correggere bozze nella redazione di una rivista di elettrotecnica in pieno centro, nel mezzo della contestazione studentesca e dribblavo i frequenti cortei che partivano dalla vicina Statale per arrivare in tempo in redazione ed evitarmi cicchetti. Anche gli scioperi erano frequenti e, pur non essendoci molto in comune fra studenti e lavoratori, le manifestazioni erano all’ordine del giorno.
Era l’inizio della “strategia della tensione” nel ‘69.
Quel giorno, il 12 dicembre, ero alla scrivania e pensavo che finalmente sarei uscita dopo un’ora e avrei preso il tram al capolinea, dando un veloce sguardo ai negozi già addobbati per il Natale. Dovevo terminare una traduzione per il giorno successivo. Improvvisamente cominciarono a tremare i vetri e il pavimento del vecchio ed elegante palazzo di via Agnello e, immediatamente dopo, un boato pazzesco. Siamo scesi tutti in strada spaventati pensando a un terremoto, cosa rara a Milano. La gente correva come impazzita gridando: «Forse è una bomba, verso piazza Fontana» (proprio dove io avrei dovuto prendere il tram).
Attimi sconvolgenti, la gente usciva dagli uffici e dai negozi affollati e vagava smarrita. Tutti eravamo terrorizzati da eventuali altre bombe. Il centro fu rapidamente chiuso e tutti i mezzi pubblici bloccati. Si sentivano solo sirene e i militari ci spingevano verso le zone esterne al centro. Ho camminato per circa un’ora e mezzo con il cuore in gola per arrivare a casa. Il seguito è storia e tristezza.
Devo dire però che la situazione di fermento è servita per dare una svolta alla mia vita e finita la scuola alla “British School” (completamente estranea alle contestazioni). Partii per l’Inghilterra convincendo i miei a lasciarmi andare con la minaccia di unirmi ai rivoltosi. Anni ’70: libertà di azione in Inghilterra dove i giovani venivano letteralmente cacciati fuori casa a 16 anni per frequentare il College e nella maggior parte dei casi dovevano mantenersi agli studi lavorando nei pub; in Italia si parlava vagamente di responsabilità politica dei giovani con occupazioni e cortei e alla fine tutti a casa da mammá! Invece nei paesi anglosassoni si responsabilizzavano i giovani a vivere indipendenti. Decidere per conto proprio, lavorare e studiare in un contesto multietnico fu per me un’esperienza non da poco in quegli anni. Una diversità di concezione delle regole di vita che si sentiva nell’aria e che ti dava sicurezza. Non vi era nessun imbarazzo nel vedere attori nudi a teatro o sentire l’inno nazionale al cinema prima dell’inizio di ogni film oppure indossare la minigonna per la prima volta. Le contestazioni erano meno violente (forse grazie agli idranti ma anche e soprattutto alle diverse condizioni di vita) e avvenivano attraverso movimenti hippy o la poesia dei testi delle canzoni come l’utopica e bellissima “Imagine” di Lennon.
Tornai dopo due anni, nel ‘72 e, a pensarci bene, non trovai in Italia grandi cambiamenti rispetto al momento della mia partenza. Per sentirmi più a “casa”, ebbi la fortuna di lavorare al Consolato Britannico con i militari che stanziavano all’entrata e con un inizio di emancipazione che mi ha lasciato un po’ di amaro in bocca.
Adesso, dopo tutti gli avvenimenti che ho vissuto in quel periodo della mia vita, di fronte all’apatia e alla regressione ideologica dei giovani, mi sembra di masticare cicuta in continuazione. Sarà colpa dell’età?

Adriana Antonielli

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