ARIA DI CAMBIAMENTO: IL SESSANTOTTO di Dominica Piccardo

 


Mio padre respirava benzene in una lurida officina, io respiravo odore di chiodi di garofano nello studio patinato di un dentista, mio nonno respirava la nostra aria in casa nostra. Mia madre respirava. Tutti respiravamo aria di mare. Abitavo a Varazze dove sono nata. Era il sessantotto, avevo diciotto anni e respiravo.
L’estate sembrava che non dovesse più finire, ero al quinto trasloco. Non male per diciotto anni! Del resto ne sarebbero venuti tanti altri! Non ho mai avuto terra ferma o riferimenti stabili, quindi, il pensiero debole non poteva spaventarmi, anzi, mi affascinava.
Unica certezza sapere che non esistono certezze. Eppure il tormentone di quegli anni era che ci dovevamo emancipare. Specialmente noi femmine. Io lavoravo da tre anni e il lavoro non mi aveva reso affatto indipendente. I soldi li davo in casa, cinquanta mila lire al mese lavorando dalle sette e mezza di mattina sino alle diciannove sabato compreso ma solo sino alle diciassette perché il mio datore di lavoro, che era magnanimo e non voleva sfruttare i suoi collaboratori ai quali voleva un gran bene, ci faceva questo favore. Votava repubblicano, era “illuminato” nel senso dei “lumi”, non in senso buddista, naturalmente, che le cose orientali si affacciavano appena alla nostra conoscenza, ma non erano patrimonio dei più. Giocava al casinò, aveva un’auto sportiva, una bella casa e, alla sera, andava via dallo studio con una cassetta con l’incasso. Avevo diciassette anni quando mi aveva assunto e, da allora, maneggiavo una valanga di denaro. Mi piaceva maneggiare danaro, però mi passava di mano così in fretta. Più ne vedevo girare e più, nella testa, cresceva la mia identità di classe. La “classe”, parola che non mi evocava la scuola, ma la mia appartenenza al proletariato. Parola di moda che mi affascinava più del femminismo e mi dava un’identità e non solo di genere; di quella mi pareva di non avere alcun bisogno. Ero una donna emancipata, la potevo dare a chi volevo, se solo avessi voluto, ma era meglio conservare il tutto per il matrimonio.
Già. Nel sessantanove pensavo di sposarmi. Mia madre, che respirava e faceva l’uncinetto, aveva preparato delle bomboniere indurite in acqua e zucchero. Cose orribili e mielose alle quali mia zia, che si era sposata a diciannove anni per restare vedova a ventiquattro con due figli da crescere, aveva fatto già stampare i biglietti con i nomi. Ebbene a quel punto l’aria di ribellione e di rivolta che serpeggiava in quegli anni fece si che lasciassi il mio fidanzato ufficiale e mi facessi l’amante. La davo a chi volevo, ero emancipata, non femminista, ma femmina. E così non conservai nulla per il matrimonio.
Neppure quelle orribili bomboniere. Mia madre, di nascosto, le tenne in una scatola di cartone; più per conservare il suo operato che per me. Ho saputo, molto tempo dopo, che le aveva poi vendute per poche lire.
Io ero una ragazza emancipata, votavo repubblicano, avevo l’amante, la davo a chi volevo, appartenevo alla classe proletaria. Ero pronta per entrare nel movimento.
Parola, anche questa, molto di moda. Potevo iniziare a partecipare alla lotta di classe. Operai e studenti insieme contro i padroni sfruttatori. Cambiai lavoro. Non più un solo padrone a sfruttarmi. Non avevo però vocazione né per fare l’operaia né per fare la studentessa e così feci una scelta mediana: mi iscrissi alla scuola per infermieri. E non dico la fatica per entrare nella schiera dei compagni infermieri. Dovevano essere tutti alti più di quanto ero io. Ma erano tempi di cambiamenti e, alla fine, passando per la via dell’ostetricia dove la misura non era prevista, entrai nella schiera dei compagni infermieri.
Avevo il privilegio di essere al servizio dei compagni malati. Due etiche e due ideologie si saldavano magnificamente. Lavoro socialmente impegnato e “io ti salverò” di cattolica memoria.
Cominciai a frequentare fumose stanze appestate di gauloise. Mi piaceva Celentano, ma era inviso ai miei amici, anzi dai miei compagni di strada. In strada, se non c’erano cortei e manifestazioni, si stava poco. Stavamo appunto in stanze dall’aria irrespirabile e discutevamo di strategie, di tattiche, di movimenti, di partiti, di internazionalismo e di libertà. Liberati dal bisogno, dicevamo. Ci dovevamo liberare dal bisogno di lavorare, di studiare e intanto cominciavamo a liberarci dei genitori, a contestarli come fanno tutti gli adolescenti, a mettere in discussione i loro principi morali, le loro ipocrisie. Eppure i miei non erano certo “borghesi” come molti dei parenti dei miei compagni, ma che importa io contestavo lo stesso. E poi bisognava leggere: avevo comperato Il Capitale, ma poi non l’ho mai aperto. E il carteggio con quel suo amico… mai letto e nemmeno mai comperato. Lavoravo e non avevo tanto tempo da dedicare alla politica, eravamo negli anni settanta avevo l’amante e andavo in montagna. Anomalia e critiche a non finire: non tanto per l’amante, ma per la montagna. Troppo borghese. E lo dicevano a me che andavo a sciare in treno, come un pendolare, partenza domenica alle sette e rientro in serata stanca, felice, bagnata. Avevo respirato aria di libertà. Ma ero felice? La davo a chi volevo, ma non ero del tutto felice, proprio come si conveniva all’epoca. Ero tormentata, quel tanto da essere alla moda, come gli altri. Conformata all’anticonformismo. In linea.
Avevo una cinquecento blu, lavoravo in città e respiravo aria di cambiamento. Per essere più socialmente impegnata e per seguire una strada di cambiamento vero cambiai lavoro. Adesso mi occupavo di malati psichiatrici, di manicomi da chiudere, di servizi territoriali. Una delle frontiere della diversità. Basaglia l’ho letto. Respiravo una ventata di libertà liberi dalle istituzioni ghettizzanti e dallo stigma della follia. La follia non esiste è una invenzione della classe dominante: i folli sono solo dei poveri e degli oppressi…
Si respirava aria nuova. Basaglia ha abbattuto i muri del manicomio di Gorizia.
Mio padre, che fino ad allora aveva respirato benzene, nel settantatre si ammalò. Ospedali, amputazioni, mieloma, emorragie, trasfusioni, sangue, morte. A volte, sognavo di averlo dimenticato in un ospedale. In cinque anni di malattia era diventato dipendente da un farmaco antidolorifico. Dieci iniezioni al giorno. Un calvario.
Fuori una girandola di avvenimenti. Le lotte sindacali, le manifestazioni, il lavoro. Già, il lavoro. Da quando mio padre si era ammalato ero diventata l’unica fonte di reddito per la mia famiglia, ero sempre più emancipata. Ero fregata. Da allora solo responsabilità. Solo lotta. Non mi mancava niente: votavo a sinistra, ero iscritta ad un partito, ero una militante. Avevo lasciato l’amante, volevo vedere crescere gli alberi insieme con qualcuno.
Nel settantotto mi sposo. Respiro, non vado in chiesa, non faccio bomboniere niente. Abito in una casa di campagna dove non si arriva con la macchina. Scelta alternativa, ecologica, ritorno alla natura. Non ho più fiato. Ho commesso un errore. Quando l’amore diventa istituzione, come il movimento del resto, si svuota e finisce. In fondo lo sapevo che non c’erano certezze, però ci sono rimasta male lo stesso.

Dominica Piccardo