INCOMUNICABILITA' di Venanzio Tuveri

 


Ma sì, ero giovane, reduce da un Politecnico abbandonato e da una sporadica visita alla Cattolica che, per selezionare i suoi discepoli, chiedeva il certificato di cresima a quanti si presentavano per iscriversi. Io dargli il certificato? Avevo già fatto l’errore di cresimarmi (ma a dieci anni non ero in grado di capire) e dovevo esibire i miei peccati? Sono corso alla Statale ma, dovendo provvedere ad affitto, pasti e sigarette e non potendo frequentare dati gli orari di lavoro, ho pensato bene di seguire alla sera un corso di lingue orientali là a due passi da piazza Missori. Facevo arabo, inglese e non so più cosa. L’inglese mi serviva per il lavoro, l’arabo… beh, non ricordo due parole in fila, ma mi è stato utile.
C’era anche l’Ombretta, con cui avrò scambiato forse una o due parole.
Le contestazioni, le manifestazioni, gli scontri? Sfiorati. Diffidavo di quanti parlavano troppo di libertà e democrazia. Io lavoravo otto ore al giorno, alle volte nove o dieci, e il sabato, e avevo bisogno di soldi. Loro occupavano il Politecnico e chiedevano il voto politico, io andavo a piedi per risparmiare sul tram. Però se ne discuteva. Loro parlavano di Marx e di Russia, io parlavo di Marx dicendo che di comunismo in Russia non c’era traccia e che Carletto aveva inteso ben altre cose.
Loro parlavano di uomini e di società, io di uomini che, nel loro comportarsi, tradivano se stessi e la società. Ma, a pensarci bene, non è che ora i russi stiano meglio di allora, salvo quelli che si sono arricchiti. Il mio sogno di un mondo giusto, che mi pareva diverso da quello invocato dagli altri, mi acuiva una strana sensazione di incomunicabilità.
Ero stanco ed è successo che, per disperazione, mi sono ridotto a votare Ugo, repubblicano. Ma una sola volta, grazie al cielo, poi sono tornato ai miei pascoli. Lavoravo anche la domenica, il pomeriggio tardi andavo a scrutinare le schedine del totocalcio, due o tre ore, quattro se i risultati erano scontati, “popolari”, e da poco avevo lasciato un terzo lavoro che non riuscivo più a seguire. Per giunta i miei colleghi avevano avuto la bella pensata di farmi delegato sindacale e io, che non ero stato in grado di sottrarmi, a causa delle riunioni dopo gli orari di lavoro saltavo i pasti.
Beh, magro lo sono sempre stato, ma andare allo sfinimento non era utile e, dato che le decisioni venivano rimandate dall’oggi al domani, cosa cui non ero abituato, ho mollato l’incarico e mi sono limitato agli scioperi come tutti. Donne e incomunicabilità sono un binomio? Ero imbranato anche se, negli anni precedenti, ero stato in mezzo a tante donne. Mi piaceva da pazzi quell’accidente della Marisa, che, poveraccia, era piena, diceva lei, di impegni e non poteva mai uscire, e mi rifiutavo di dar retta a quelle due o tre che volevano circuirmi. Per giunta una era sposata e per me il matrimonio è sempre stato sacro. In sostanza non avevo ancora capito niente, ma ora che comincio non c’è un cane che mi salti addosso.
In quegli anni anche noi abbiamo creato un circolo culturale: pittori, poeti e narratori, e una o due volta al mese ci incontravamo per leggerci le menate. Non avevo tempo e mi riducevo a scrivere i miei versi, che io stesso dovevo leggere, negli istanti prima dell’incontro, o magari mentre gli altri leggevano le loro cose.
Una volta il circolo ha festeggiato con dolci vino e liquori, e io mi son ritrovato ad andare via per ultimo dalla casa della poetessa più sbronza che abbia mai visto. Beh, ero bevuto anch’io, ma qualcosa riuscivo ancora a capire, tant’è che ci ho provato. Il mio fascino doveva essere agli sgoccioli, lei cascava dal sonno, e perciò, dopo averle rimboccato la coperta, mi sono allontanato chiudendo dolcemente la porta. Ho sempre tenuto alla buona educazione, anche se non sempre la pratico, ma anche quella volta ho avuto il dubbio di non saper comunicare in modo adeguato. Ho sofferto di incomunicabilità anche in questi ultimi tempi, tant’è che quest’ultima continuo a pensarla e a non volerla vedere e sentire. Sono un sempliciotto e non sono migliorato nel corso dei decenni. Ma è bello pensarlo.
Poi li ho lasciati, quelli del circolo culturale, perché andavano avanti a menare su poesie e quadri con considerazioni e critiche piene di parole difficili. A me una cosa piace, mi è indifferente o fa schifo, ma a parlare così non facevo cultura. Neppure loro mi capivano.
In quegli anni si andava al cinema spesso e vi si fumava tanto che il fumo in sala sembrava una nuvola da temporale. Due film 150 lire al Volta e in qualche altro locale, una benedizione quando non avevi gente con cui uscire.
Ho tenuto una festa anche casa mia, e alla fine siamo rimasti in quattro, due da una parte e due dall’altra. Ce l’avevo sopra di me, Silvana, magra e bella: mi confidava d’essere stata con un pittore che aveva due volte la sua età e voleva sapere se, anche se non più vergine, l’avrei sposata. Naturalmente ha sposato il pittore e a me è rimasto il rimorso di non aver fatto niente, quella sera. Ho smesso perciò di tenere feste in casa. Mentre imperava Mao io imparavo a leggere le carte e il palmo della mano e a predire il futuro. La mia insegnante girava la penisola per lavoro e mi mandava le cartoline con le poesie. Ho iniziato per gioco e ci sono rimasto di merda quella volta che a Nervi ho detto a una ragazza appena conosciuta che il padre per lei era come se non esistesse. Il giorno dopo mi confidava che in effetti il padre era morto da qualche tempo. Ho smesso, ho smesso perché mi mettevano a disagio le persone disposte a credere che quanto diceva un mazzo di carte potesse essere vero. Avevo paura di creare attese e di ingannare il prossimo. E di sbagliare, non solo di indovinare. Era quasi meglio la politica, e i quadri che cominciavo a fare e a esporre nelle terre lombarde. Ma non disegnavo madonne come un collega, vendevo poco o niente, ma per rispetto a me stesso tenevo alti i prezzi. Il nostro critico d’arte, che pagavamo per pubblicarci sulle riviste di settore, ci esaltava.
Il lavoro procedeva con dignità, lo stress mi provocava l’ulcera e non avevo tempo per secondi lavori e circoli. Preferivo stare con la persona che avrei poi sposato e che un sabato mi sfondò la porta di casa perché, dimenticandomi dell’appuntamento, ero andato fuori città. Aveva sentito puzza di gas e aveva chiamato vigili e carabinieri. Al ritorno la trovai seduta sul divano e si sorprese che fossi ancora vivo. Ecco, con lei il mondo cambiava aspetto, comunicavo benissimo e insieme venimmo a patti su cosa significasse dittatura del proletariato.

Venanzio Tuveri