Lungo perché? Non solo e non certo perché è cominciato nel ’67 per spegnersi piano piano dal ’74 al ’77, ma soprattutto lungo perché era il periodo della mia prima giovinezza, quando il tempo pareva infinito e protratto in un lungo presente. Per noi studenti, un prolungamento d’infanzia. Lo cantava il nostro amico Fabrizio:
“Loro avevano il tempo anche per la galera
ad aspettarli fuori rimaneva
la stessa rabbia la stessa primavera…”
Non è facile immaginare che razza di libera ligera io sia stata a quindici anni… Marinavo, arrivavo a scuola a tutte le ore, copiavo in classe i compiti a casa… Avevo una compagna con problemi di funzionalità polmonare, e stavamo al bar fino a tardi, poi facevamo di corsa cento metri, la mia amica arrivava da sbatter via e io dicevo: Siamo in ritardo perché si è sentita male… Che razza di incoscienti!
È stato vicino al liceo, presso Balbi, all’università insomma, che ho conosciuto i beatnik. Passavano gran parte del proprio tempo in una specie di “Piazza Grande”, Piazza Tommaseo detta Piazza Tomma, ed erano una sorta di “fratelli maggiori” degli hippy, con capelli lunghissimi e sporchissimi…. salvo quando andavano all’università: ogni tanto succedeva, erano quasi tutti universitari e prima o poi si sono laureati tutti. Molti di loro dormivano lì e non si era mai certi di trovarci questo o quello: arrivavano e sparivano (diversi in realtà andavano a casa a preparare un esame), la droga non era ancora arrivata, io non ho mai visto neanche spinelli, checché ne dicano. I beatnik erano ribelli, negativisti, formavano come un circolo chiuso e fondamentalmente erano ancor meno politicizzati degli hippy. Io però ci stavo bene e ho imparato da loro a sedermi sui marciapiedi, a condividere tutto, ad amare tutto il gruppo, e a fregarmene della gente che ho in giro (mamma mia, come si scandalizza mio figlio!). Dai beatnik ho anche conosciuto il loro simbolo, quella famosa composizione nel cerchio che tutti identificano con la frase: “fate l’amore non la guerra”:
- un semicerchio a sinistra, il sole che sorge,
- un semicerchio a destra, il ventre di una donna incinta,
- e poi in centro quella specie di Y, il simbolo della bomba rovesciato per spregio.
Tutto insieme: LA STUPIDITÀ DELL’UOMO UCCIDE LA NATURA SUL NASCERE. Appunto. Meno politicizzati degli hippy!
Era sempre così, negli anni dal 67 al 71. Picchetto duro/picchetto morbido. A me non piaceva il picchetto duro, perché dopo troppi se ne andavano a “pomiciare” a Villetta Di Negro, azione meritoria e utile, pomiciare, ma insomma, non in orario scolastico. Così cercavo di prendere in mano io la gestione dello sciopero. Spiegavo, discutevo, e i convinti venivano in manifestazione, mentre gli altri entravano a scuola. Nell’estate del ‘68 ho fatto il mio primo e unico lavoro a maglia: una lunga, chilometrica sciarpa rossa… a punto Mussolini, da portare come una bandiera, e con cui fasciarsi il viso come sorvegliati politici, benché non servisse a nulla.
Due me diverse: quella seria, la compagna che ne ha fatte tante, che ha girato l’Italia per manifestazioni, e quella pazza, che “sentiva l’erba crescere” e che, ai bagni di Boccadasse, cercava di capire cosa davvero potesse darle un ragazzo, un ragazzino come lei, che non poteva farle paura…
Anch’io andavo a Villetta Di Negro, intendiamoci. È un gran bel posto, in fondo, con parco, cascata, e mille anfratti rocciosi e boschetti e nascondigli, e poteva venir tardi, e allora si arrivava trafelati al cancello appena chiuso, e la “signora guardia” fingeva di non poter più aprire, e noi a scongiurare, terrorizzati all’idea di tardare sull’orario di rientro a casa. Altri tempi, rispetto ad oggi.
Era l’anno di “Le ombre della sera” e de “La bambolina che fa no no no”… Guardando i ragazzi mi sentivo gli occhi come velati, e a volte lo stomaco che guizzava e le gambe che cedevano, ma i beatnik non so perché mi proteggevano che tutti ne parlavano così male, e si sarebbero scannati piuttosto che permettere che qualcuno mi spaventasse o mi mettesse in imbarazzo. Io ero la più piccola e il mio “protettore” erano un gigante bruno coi ricci a mezza schiena detto “Cleo”, dato che tutti portavano nomi di fantasia, e un tipo minuto e dolcissimo, quasi un fratellino, detto Andy, che però è un capitolo di cui non si parla. Come ci sono stata bene, con loro. E poi, nel bar della Nunziata frequentato anche dai beatnik e da noi ginnasiali ritardatarie, ho conosciuto un altro Fabrizio, ed è stato bellissimo e struggente, ma anche di lui non si può parlare perché ci sono un figlio, una figlia, una moglie… un’ex moglie! E poi nei locali a ballare, a sentire “Bambolina, dimmi di chi sei….” sognando che il bellissimo cantante inglese parlasse proprio a noi. Che anno incredibile, quello della quarta ginnasio. Va beh, quell’anno lì m’hanno bocciato… ma è stata l’unica volta, e non ho mai più corso neanche il rischio! Avevo nove di italiano e nessun’altra suff… persino cinque di storia.
In realtà, io ero una “dura e pura” e mi si vedeva più spesso in assemblea a Balbi che a pomiciare in Villetta. Incoscienza dell’età.
Facevo parte di un’associazione giovanile di partito che era bellissimo, e tutti sembravamo fratelli davvero, e un certo periodo vennero da noi anche i ragazzi della parrocchia a discutere e a cantare le canzoni partigiane, ma alle prime defezioni il parroco si arrabbiò e vietò quelle riunioni. Ancora adesso quei ragazzi vivono e affrontano coraggiosamente le proprie contraddizioni interne, mai più spostati dall’area che avevano abbracciato spesso a dispetto della famiglia stessa.
A Genova Sampierdarena (Sampe) c’era la sede del GOS, il movimento studentesco degli studenti medi, in un palazzo fatiscente e dall’aria equivoca. Nel portone c’era buio e un forte odore di orina. I ragazzi erano di diversi gruppi politici e io ero senz’altro la più “costituzionale”. Appena entrati ci si sedeva, si gettavano sul tavolino centrale tutti i pacchetti di sigarette, dopo di che ognuno si serviva a piacer suo, che ne avesse portati o no . Si discuteva, si ragionava sulla politica interna ed estera e, soprattutto, sui problemi della scuola. Era un esercizio di logica, un gioco di democrazia.
Alla fine, si cercava di raggranellare i soldi per l’affitto.
Io sono entrata senza la solita presentazione anche la prima volta, perché tutti mi conoscevano. Appena entrata, due avvisi: c’era un letto sul soppalco se mi interessava, e dopo la riunione volendo si poteva “fumare”. Nessuno dei due inviti fu più ripetuto: ormai me lo avevano detto. La cultura della droga non esisteva ancora, e inoltre era chiaro per tutti che io ero vergine. E dai, a proteggermi anche lì!
Comunque pochi si fermavano dopo le riunioni, sempre gli stessi. Chissà se, in realtà, era per quello che venivano. Quanto al letto, l’ho visto usare poche volte, e per lo più da compagni per qualche motivo fuori casa, e solo qualche volta da coppie collaudate, ragazzi che “stavano insieme” da tempo.
Quanto agli spinelli, avevo l’impressione che facessero parte della dotazione dei soldati in Vietnam per “aiutarli” a stare buoni, a non “rompere”. E io “buona” non volevo stare, naturalmente, era ovvio che preferissi “rompere”…
Alla mia prima manifestazione non organizzata non ero preparata alla furia della celere, come non lo ero alle foto del giorno dopo che, sui giornali, mostravano in piazza Corvetto pietre che non c’erano state. I manganelli fanno male, posso assicurarlo, e fa male essere trascinate per i capelli. Ma fanno anche male le ginocchiate nel punto maschile più delicato, a costo di lasciare in quella mano guantata una bella ciocca di capelli lunghi lunghi.
A casa, mio padre mi regalò 50.000 lire per “il battesimo del fuoco”.
Ha ragione Capanna: “Formidabili quegli anni”. Formidabili soprattutto per ciò che legava i ragazzi, formidabili per le speranze, per la passione, per l’entusiasmo e il senso internazionalista che ci univa: il Vietnam, il Biafra, la Cina, i neri degli Stati Uniti, la Cambogia, il Laos… tutti vicino a casa.
“Non lotto per me – mi disse un giorno mio padre, partigiano, sindacalista e attivista politico – Lotto perché tutti stiano almeno come me”.
Grand’uomo, mio padre. Mi manca da morire.

Laila Cresta

UN LUNGO ‘68 di Laila Cresta