IL MIO SESSANTOTTO di Sandra Zanone

 


Avevo sedici anni nel 1968, frequentavo il secondo anno dell’Istituto tecnico commerciale "G. Cesare Abba" di Genova. Non c’era già più mio padre, scomparso due anni prima, ma avevo una madre coraggiosa e volitiva che si era rimboccata le maniche continuando a lavorare ancor più di quanto avesse sempre fatto. La mia scelta di studiare ragioneria, più che dalle mie attitudini che mi avrebbero indirizzato verso studi umanistici, era stata dettata dal fatto che non avrei potuto approfittare del sacrificio che mia madre affrontava per mantenermi agli studi, scegliendo un percorso scolastico troppo lungo. Il suo lavoro era pesante e non vedevo l’ora di diplomarmi e di trovare un lavoro per non gravare completamente sulle sue spalle. Ho ricordi vaghi della scuola e della ragazza che ero: troppo magra, troppo timida e insicura, troppo protetta. Ricordo i miei disagi all’inizio delle scuole superiori. Avevo perso mio padre da poco quando cominciai il primo anno. Mi trovavo ad affrontare un ambiente nuovo, con compagni e professori che non conoscevo e alle cui domande circa la mia famiglia avrei dovuto rispondere che ero orfana di padre. Oltre al dolore della sua mancanza, vivevo quel mio stato come una sorta di handicap che mi impensieriva, forse perché ho sempre temuto la commiserazione e la pietà e nella mia mente immaginavo di poterne essere oggetto.
Intorno a me, fin dall’infanzia, oltre ai genitori, c’erano stati i nonni materni e una coppia di zii senza figli che abitavano di fronte a casa nostra e che stravedevano per me. I nonni erano mancati (la nonna dodici giorni appena dopo mio padre), ma restavano gli zii che consideravo un po’ una seconda famiglia. Caratterialmente ero tranquilla, affatto ribelle ma piuttosto accondiscendente e quindi le aspettative degli altri avevano sempre avuto facile presa su di me. Non ricordo flirt in quel periodo, ma parecchie cottarelle che, un po’ per la mia timidezza e un po’ per la scarsa libertà di cui godevo, rimasero tutte ricambiate solo a distanza con qualche sguardo, qualche timida parola e molti sogni. La mia vita si svolgeva diligentemente tra lo studio, le uscite con un gruppetto di amiche e attività di volontariato che, essendo la mia famiglia di estrazione cattolica, si svolgevano esclusivamente nell’ambito parrocchiale. Fu in quel periodo che feci parte della "San Vincenzo de’ Paoli" un’associazione che si occupava degli ammalati e degli indigenti. Visitavamo settimanalmente gli ospedali e periodicamente case di riposo per anziani, orfanotrofi e famiglie bisognose. Eravamo ragazze e ragazzi ben affiatati, pieni di ideali e quello che facevamo ci rendeva fieri. L’esuberanza della nostra età sapeva ritagliare comunque, pur nella frequentazione della sofferenza, momenti allegri e divertenti. Ricordo i figli dei fiori, le canzoni, la voglia di nuovo, l’idea forte della condivisione e poi, essendo sempre stata interessata alla moda (mia zia faceva la sarta) ricordo i pantaloni a zampa d’elefante e la minigonna (che nel mio caso non doveva essere troppo mini). Ricordo le uscite con le amiche, lo struscio, gli appostamenti per incontrare i ragazzi, i film che andavamo spesso a vedere.
Il ’68, con le sue turbolenze, le sue lotte, le ribellioni e le conquiste mi sfiorò appena. Ero chiusa in un guscio che mi proteggeva ma che, come tutte le protezioni, mi impediva anche di vedere e di capire veramente quello che stava accadendo. Mi arrivavano solo tracce di quei fermenti, come riflessi di un fuoco che brucia altrove. Solo dopo anni mi sono resa conto davvero di quello che è stato quel periodo e di cosa abbia significato. Come spesso accade non ci si rende conto della realtà che si vive se non dopo essercene un po’ allontanati.
Finiti gli studi trovai presto un impiego vicino a casa. Mia madre tirò un sospiro di sollievo ma la sua contentezza non durò a lungo perché si ammalò e pochi mesi dopo mi ritrovai sola. Avevo vent’anni e gli zii mi accolsero in casa loro. Ne fui felice, ma dovetti disfare la mia casa e forse fu da lì che cominciai ad avere fretta, fretta di rifarmene una mia, di avere una famiglia mia. E così, forse troppo in fretta, mi sposai con un collega, a ventitre anni. Troppo giovane, troppo inesperta, non conoscevo nulla della vita se non un bel po’ di sofferenza e la voglia di ricominciare.
Come tutti a quell’età avevo tanti sogni, sogni piccoli, di felicità domestiche, di maternità come ci si aspettava da me e come ero convinta di volere anch’io. Credo di non essere stata sufficientemente brava a realizzarli.

Sandra Zanone