I FRUTTI DELLA TERRA di Angelica Lubrano

 


Si alzò per aprire la finestra.
Lo sguardo si spinse a valle, posandosi sul disegno fiammingo della campagna: siepi e filari, fiume e strade ad insegnare la prospettiva fino ai monti visionari su cui s’era afflosciato un cielo rabbonito. Aveva smesso di piovere e i voli eccitati di uno stormo di stornelli attirò il suo sguardo che si spinse fin dove le rocce si scontravano con le onde e la costa frastagliata ritmava, fra baie e spiaggette, col mare.
Sessantotto/ settantotto: il tema la costringeva a ricordare.
Spesso si chiedeva quanto i tempi e l’ansia di cambiamento che aveva contagiato tanti, rendendoli insofferenti all’ipocrisia dominante, avessero condizionato le sue scelte. Era un’idealista, ma aveva sempre cercato di distinguere i sogni e i desideri dalla realtà.
L’incontro.
Era l’11 maggio, giorno del suo compleanno. Con Beppe e Adelina era andata a Torino, a trovare degli amici un po’ figli dei fiori, un po’ anarchici, un po’ “fumati” col “trip” della natura, degli animali, di una vita alternativa alla marea montante del consumismo, ma anche alle degenerazioni brigatiste che in quegli anni affascinavano alcuni. Proprio in quei mesi i tristi epigoni di quel progetto violento di cambiamento della società consumavano alcuni tremendi “botti”con efferati omicidi eccellenti.
Galeotta la lettura dell’”Idiota” di Dostoevskij: quel biondino, magro, mal vestito, dai verdi occhi irridenti, che si permetteva di dire tutto quello che gli passava per la testa, senza alcun rispetto delle regole, rifuggendo dai luoghi comuni, la colpì, all’inizio, forse, non favorevolmente.
Malgrado le sue fantasie di emancipazione, non era mai riuscita a liberarsi da quei conformismi così banali e opprimenti nella vita di relazione. Lui no, spesso la lasciava sconcertata per il suo comportamento mai ipocrita, ma talvolta imbarazzante. Il suo “principe Miskin” entrò a far parte della sua vita o, meglio, fu lei che accettò di condividerne le scelte.
Da allora l’esistenza non conobbe più strade in discesa, ma una lunga erta accidentata che rese tutto una continua sfida: a volte sembrò a dire il vero una discesa agli inferi, ma tutto ebbe l’eterea levità di una favola antica: “Sette paia di scarpe ho consumato, sette lunghi anni di lacrime amare..” . Ma Gemma e il suo “principe” vivevano, ai bordi del mondo, una storia d’amore fatta di lotte quotidiane inenarrabili, ma anche di poesia, le poesie che lui le scriveva:

Voglio affondare in te
Come il fulmine nel mare,
distendermi
come le nuvole sull’orizzonte.
Voglio morderti
per sentirti vicina,
coprire le tue paure
con il fragore di una bianca onda.
Voglio bere di te, goccia di rugiada,
quando il vento di questa terra
bella e dura farà seccare la mia gola.
Voglio spezzare con te
il pane dei miei giorni.
Voglio accarezzarti come m’insegna
Questa dolce aria di luna
E ancora prenderti per mano
E mostrarti i nuovi ramoscelli del nostro nido.
Il nido.
Non fu facile trovare il luogo dove realizzare il suo sogno: vivere in campagna dei frutti della terra.
Dario possedeva un diploma di perito agrario e una forte dose di cocciutaggine piemontese, nient’altro.
Di terre abbandonate ce ne sono molte, ma nessun proprietario è disposto a cedere neanche un acro di terreno, anche se tutti continuano a ripetere l’urgenza di un ritorno dei giovani all’agricoltura. Difficile, allora, le sembrò anche poter recuperare conoscenze perdute, misurandosi con modi nuovi di vivere l’agricoltura. In fondo a tutti noi erano state raccontate storie un po’ fosche sulla vita miserabile e disperata della gente di campagna.

Cascina Prati
Un sentiero accidentato la collegava alla Provinciale. Rovi alti anche due metri avviluppavano e chiudevano alla vista gran parte del vecchio fabbricato rurale ormai in completa rovina: non rimaneva una porta, né una finestra; il tetto crollato; il pavimento, qualche asse tarlato, cedette al primo tentativo di Tago, il cane, di correre festoso per la “nuova casa”. Intorno sei ettari di pruni selvatici, ginestre spinose, ortiche, rovi e pietre, tante pietre. Il vicino bosco inselvatichito era avanzato dove s’indovinavano ancora vecchie “fasce” , opere pazienti, un tempo, della fatica dell’uomo.
Un grosso incendio aveva definitivamente devastato, pochi mesi prima, Cascina Prati convincendo, il proprietario, ad affittare la terra e il rudere in rovina.
Mancava la strada e per mesi il materiale per i primi interventi fu trasportato a braccia lungo i settecento metri di sentiero, ma anche quando finalmente una ruspa segnò il tracciato della strada, bastava una pioggia a trasformarla in un pantano.
L’acqua del ruscello fu convogliata con un tubo di gomma e usata solo per abbeverare gli animali e per lavorare; l’acqua da bere? Un grosso bidone riempito tutti i giorni alla fontana del paese.
Individuata la sorgente una tubazione, questa volta interrata, portò l’acqua vicino alla casa, non ne oltrepassò la soglia però a causa della scarsa pressione.
Nella stalla vennero montate le attrezzature per l’allevamento dei conigli. A maggio le prime trentatre fattrici, a giugno la prima nidiata. Il lavoro fu febbrile e senza sosta, assillati dal timore che con la fine della buona stagione, l’inverno avrebbe potuto sorprenderli con la casa ancora scoperchiata. Assi, chiodi, secchi salivano e scendevano lungo vecchie scale dai pioli consumati.
Una monumentale stufa in terracotta e una cucina a legna (il vecchio “putagè” piemontese) acquistata al mercato dell’usato del Baloon” a Torino scaldarono le uniche due stanze ricavate dai primi interventi di ristrutturazione: una cucina, in un locale usato un tempo per l’essiccazione delle castagne e una camera da letto, da cui erano stati sfrattati nidi di pipistrelli e matasse di ragnatele.
Furono gettate le fondamenta della futura stanza da bagno. Concimare il terreno dietro a un cespuglio è forse ecologico, ma d’inverno è sicuramente scomodo. Vecchie batterie di macchine collegate ad alcune lampadine, fornivano, con molta parsimonia , un minimo di illuminazione. Alla luce di quelle lampadine fioche o di qualche candela, Gemma preparò i suoi esami universitari e la tesi di laurea sullo “Sviluppo delle aree marginali”.
Poco per volta il gerbido brullo lasciò spazio alle prime coltivazioni.
Arrivarono le pecore e Veronica, la vitellina. La capra Peppina, (in onore della nonna di Dario di cui ricordava il profilo scarno e adunco e la barbetta..), fornì il latte quotidiano e fu la cavia dei primi, maldestri tentativi di mungitura. Anche le galline contribuivano con sussiego e con qualche uovo stentato alla dieta quotidiana. Era singolare vedere per l’aia uno strano corteo composto da Veronica, Peppina, Tago, il cane e le galline; talvolta non si fermavano neanche davanti all’uscio di casa e venivano scacciati via.
L’inverno incombeva e presto si resero conto di non avere fieno sufficiente: Veronica, la vitella, aveva imparato ad abbattere lo steccato, dimezzando il raccolto di mais: quello che la vitella e gli altri animali non erano riusciti a mangiare e non era stato irrimediabilmente calpestato fu raccolto e spannocchiato nelle fresche sere autunnali con gli amici intorno al fuoco.
Ora Gemma sorrideva a quei ricordi. La tensione si era allentata sciogliendo il grumo che premeva dentro. Il terreno esausto di pioggia, formava lucide pozze d’acqua, che riflettevano i primi raggi di sole, da cui anche lei si lasciò scaldare, ascoltando, lontano il gracidare rauco e i rumori quieti della campagna.

Angelica Lubrano