Fino a qualche anno prima vivevamo in una casa con due stanze. Dalla mezza porta che dava sulla strada, tutti quelli che passavano guardavano all’interno a tutte le ore del giorno. Da una porta sulla parete di fronte si entrava nella stanza in cui c’era il letto dei miei genitori ed un altra in cui noi figli dormivamo in tre. Nel 1960 mio padre partì per la Germania ed arrivarono i marchi con cui comprammo una casa più grande. Nel 1968 avevo incominciato a lavorare da pochi mesi. Ero un operaio bambino e qualcuno mi prendeva in giro, dicendo che le aziende andavano a pescare negli asili, per colpa delle mie orecchie a sventola, gli occhi grandi e la mia carnagione scura e liscia. Ero ricco allora, lavoravo presso una ditta di telecomunicazioni che pagava più di quello che davano al direttore dell'ufficio postale del mio paese e oltre al noleggiatore ero l'unico ad avere una macchina per uso privato. Gli altri lottavano con la terra, quella terra che prima o poi piegava la schiena anche ai più forti. Era maggio e da qualche giorno avevo compiuto diciotto anni e mi avevano mandato a lavorare a Maratea insieme a due compagni più anziani che mi avrebbero dovuto addestrare… a come fare ad imboscarsi. La superstrada “Valle del Noce”, che scendeva in picchiata da Lagonegro al mare, ogni tanto strozzava, per questo motivo i napoletani, che avevano già devastato il loro mare e si apprestavano a colonizzare quei litorali, spesso con le loro auto finivano dritti nelle scarpate specie con cattivo tempo. Al ritorno, su una piazzola dopo un cavalcavia, un donna seduta sembrava aspettasse qualcuno. Non erano ancora arrivate le ragazze dell’est e neanche quelle di colore. “Bocca di rosa” abitava nel paese vicino e, per aumentare il fatturato, portava il paradiso ai camionisti; glielo porgeva su un letto di paglia che aveva preparato sotto il cavalcavia, mentre il ruscello cantava. Era molto brava a darti il corpo e l’anima, poi, se ci andavi a casa d’inverno, ti accendeva il camino per farti riscaldare e ti preparava un uovo fritto con la salsiccia, d’estate latte e vino con la mentuccia. “E’ ancora vergine - le dissero i miei due compagni di lavoro - paghiamo noi”. “In questi casi non si paga” rispose lei con una scintilla compiaciuta nello sguardo. Dovevo imparare, per questo i miei capi mi avevano affidato a loro, per dimostrare in tutte le occasioni di essere ormai diventato grande. Due anni dopo arrivò la cartolina che mi destinava ad Albenga per il servizio militare. Fu quello il momento in cui ribaltai tutto quello che mi avevano insegnato a casa. Tutto a rotoli. Per sopravvivere in quell’ambiente dovevi diventare un figlio di pu…ed io lo diventai! Quelli erano gli anni delle trasgressioni, dei tradimenti e delle amicizie profonde; non facevi in tempo a trovarti un complice, un compagno che questi, diventato un peso per la sua famiglia, veniva invitato dai genitori a cercarsi da vivere in un altro posto. Tempi di lotte per giustizia e diritti; i miei compagni combattevano in ogni angolo dell’Italia e dell’Europa. C’era rispetto reciproco, onestà, attenzione verso chi aveva bisogno e la famiglia, senza se e senza ma, si doveva difendere a costo di sacrifici. Imparavo i valori delle tradizioni, sbaraccavo con i compari nei giorni in cui uccidevano il maiale. Dopo, il vestito bello lo abbiamo buttato insieme ai preziosi che vi erano attaccati sopra. Intanto l’aquila del tempo volava veloce e il mare mi fece dono di un angelo con le sembianze di una giovane fanciulla che io sposai con una tipica cerimonia meridionale. Ospitammo 600 invitati in un vecchio castello cadente, preso in prestito da un nobile decaduto. Nei giorni precedenti lo avevamo addobbato e durante la festa sembrava dovesse cadere da un momento all’altro a causa del complesso fracassone. Trecento chili di “paste” (dolci freschi e secchi), un lago di liquori ed un torrente di vino, tanti panini e rustici; finimmo la festa all’alba. Le stanze erano tanto grandi che gli invitati sembravano pochi; mio padre era felice come lo fu quando nacque mia figlia. Conservo ancora la foto di lui con lei in braccio. Da allora non l’ho più rivisto. Ha lasciato un vuoto che neanche adesso che sono passati tanti anni riesco a riempire. Mio fratello, anche lui emigrato in Germania, una sera ci telefonò dicendo di stare tranquilli e di non partire, perché il dottore all’ospedale gli aveva assicurato che non c‘erano problemi. “Suo padre - aveva detto - ha una stretta di mano così forte, che ogni volta ti prende la paura che te la stritoli”. Era un bravo fabbro mio padre e aveva le mani grandi e forti come due tenaglie. A suo tempo aveva dovuto emigrare perché i contadini, quelli che pagavano, davano grano quando il raccolto era buono, qualche pollo di tanto in tanto o le giornate di scambio a zappare l’orto; di soldi neanche l’ombra! Quando ce lo portammo a casa in una bara , capii perché si dice da sempre che gli anni corrono: mi ero affacciato alla finestra di casa mia e non avevo ancora diciotto anni, il giorno dopo, riaffacciandomi mi accorsi che era ancora il mese di maggio. I rondoni, come sempre, garrivano sulla mia finestra e dichiaravano libero il cielo, per chi avesse voluto amare. Con una piccola differenza, non banale, come per magia avevo dieci anni in più.

Rosario Castronuovo

1968 di Rosario Castronuovo