…ERA GIA' FUTURO di Antonietta Cavallero

 


L’aria della sera sta rinfrescando. La calura estiva, che per tutto il giorno ha incendiato i marciapiedi della città immonda di miasmi, si stempera nella notte asciugando il sudore annidato tra pieghe di corpi affaticati.
Alberto ha lavorato nel suo ufficio incollato per ore al computer, l’aria condizionata, quella maledetta aria condizionata, gli ha procurato un dolore alla cervicale. Esce massaggiandosi il collo e si libera della giacca che ha tenuto addosso tutto il giorno con l’eleganza di un manichino. Cinquantotto… oggi compie cinquantotto anni. Non può fare a meno di elencare con un rapido bilancio i punti salienti della sua vita. Due figli, un divorzio alle spalle e la relazione con Clara… una litania di alti e bassi, liti e riappacificazioni brevi e intense. Decide di fare un salto al sindacato. Pochi minuti soltanto. Il tempo di sapere qualcosa di più sulla vertenza che riguarda la sua categoria. Una scusa banale per incontrare gli amici di un tempo. Beppe, occhiali, un riportino niente male per nascondere l’incipiente calvizie, Franco precocemente ingobbito sulla tastiera di un computer e poi Giulio, Andrea… Tra loro, i contatti si sono mantenuti più stretti, l’attività sindacale li ha accomunati. Con lui si vedono qualche volta per una partitina a biliardo o come stasera che è andato a stanarli nel loro covo. Lui non si sente più amalgamato a loro. Lui ha fatto un minimo di carriera e gli sembra che lo guardino come chi “sta dall’altra parte”. Spesso se ne rammarica, ma poi si consola convincendosi che è soltanto una sensazione. Cinquantotto tondi tondi, sta scivolando irrimediabilmente verso i sessanta. Ginnastica, pancia in dentro, qualche escursione in montagna... ma ci sono, Alberto, è inutile che tu ti nasconda dietro un dito.
La maturità, l’esame di laurea, i torciglioni nella pancia per la paura, incollare manifesti, scendere in piazza per il Vietnam, sperare in soluzioni più avanzate, far parte di un movimento di contestazione, inventare slogan… momenti di vita intensa. La sua vita. Lontana. Quel pezzo di vita che non sembra più appartenergli. Quella dell’altro Alberto. Credulone, convinto fino allo spasimo della serietà dei suoi proponimenti di cambiare il mondo… Ogni tanto ha bisogno di rivederli quegli amici. Ha bisogno di mescolarsi a loro per cercare, invano, di ricomporre l’euforia che alla fine degli anni sessanta li aveva tenuti svegli fino a notte inoltrata con la convinzione che le idee di rivoluzione, annegate nella Coca cola di un pub, avrebbero trasformato il mondo. Alberto è uscito tardi dal sindacato, da quella baraonda di fogli, leggi, leggine e cartacce e ha trovato Clara ad attenderlo, inquieta e nervosa. Si è dimenticato di lei. Non può confessarglielo. Non può dirle a muso duro che lei è l’effimero oggi, mentre i compagni appena lasciati sono la realtà integrante di sé, della sua giovinezza e per questo amati e vivi nella nicchia dei ricordi. Lei non era ancora nata quando dal miracolo di un televisore in bianco e nero un giornalista dalle orecchie a sventola enunciava quei fattori di politica internazionale che contribuivano a creare una forte instabilità nei rapporti tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Con loro, ma specialmente con Beppe che era il più “grande” del gruppo, aveva incominciato a discutere di problemi sociali, aveva incominciato cioè a avere la consapevolezza che non esisteva soltanto il suo orticello peraltro mal coltivato. Alberto non aveva idee chiare in merito, ma le parole “guerra fredda” e “minaccia atomica” gli mettevano dentro un senso d’impotenza subordinato alla voglia di dire “ci sono anch’io”. Hiroshima e Nagasaki erano soltanto nomi per lui, ma ancora bruciavano sulle labbra dei suoi genitori come un gemito di morte. Sentiva a istinto che la situazione internazionale stava capovolgendo i suoi dogmi. Le notizie sulle lotte di liberazione dal colonialismo di paesi del Terzo Mondo, l’esito positivo della rivoluzione castrista a Cuba, le rivolte dell’America Latina contro l’imperialismo americano, il “non allineamento” di numerose nazioni in Africa e in Asia facevano supporre che il mondo fosse aperto ad accogliere equilibri più avanzati. Dal magma del caos personale che si portava in testa emergeva un’urgenza che lo tormentava. La ricerca di obiettivi, il baratro delle ambiguità ideologiche, la mancanza di un riferimento concreto erano la causa di una eccitazione nervosa che non gli permetteva di prendere sonno facilmente. Si addormentava quando i primi chiarori di un nuovo giorno filtravano dalle persiane e il suono della sveglia lo rimetteva in riga con i suoi doveri di studente. Non voleva vivere così, non lo voleva proprio. Confusamente capiva che la sua generazione, al contrario di chi aveva alle spalle le agonie di una lunga guerra, era protesa verso una nuova frontiera. La frontiera del “miracolo economico”.
Pochi giorni fa Alberto ha letto che alcuni studiosi, quali Giovanni Arrighi, Immanuel Wallerstein, Marco Revelli hanno proposto addirittura un parallelo tra i movimenti del 1968 e del 1848. Il loro giudizio su quelle rivoluzioni, a suo parere fin troppo severo, appare supportato da un’attenta analisi del processo storico. Hendrix. Allora non gli era neppure passata per la testa l’esistenza di forti contraddizioni. Pacifismo e prassi rivoluzionaria, lettura dei testi marxiani e lettura di fumetti. Se ne rende conto soltanto oggi che tutto ciò contribuiva a creare lo spazio comunicativo aperto nel quale riuscivano a convivere istanze culturali, sociali e politiche anche assai diverse. A ben pensare quel tipo di cultura, d’altronde, è stata una delle manifestazioni più imponenti della storia delle idee del secolo scorso e con le esperienze recenti viene facile pensare all’influenza che ha subito la classe dirigenziale di oggi nell’economia, nella politica e nella comunicazione.
La voce di Clara, resa stridula dall’irritazione, interrompe bruscamente il filo dei pensieri, eco delle recenti discussioni in sindacato. Non risponde neppure. In fondo in fondo sa che non può pretendere di tenere in piedi un legame con una giovane donna e non darle niente… Eppure entrambi amano le nebbie portate dal mare, le stelle ferme come pietre nell’umido della notte, il profumo dei gelsomini, l’alito del vento sulla pelle… Forse non basta. Non basta amare un pugno di cose per stare insieme, non basta lasciarsi alle spalle la vita che ti ha plasmato per correre incontro a una nuova esperienza soltanto per risentire l’eco della giovinezza.
L’aveva conosciuta un giorno d’autunno turbinante di foglie rosse come i suoi capelli. L’aveva amata? L’ama ancora? Lui, come ogni uomo, è la somma dei propri gesti, delle proprie parole e i suoi gesti e le sue parole gli suggeriscono di restare solo, solo come canna oscillante in una foresta di canne oscillanti sul greto di un fiume.
L’essere umano non cambia. Accumula esperienze di vita, errori, speranze, illusioni, ma a diciotto come a trenta come a cinquanta, pur modificandolo, mantiene nell’agire lo stesso denominatore comune. Lui ha sempre avuto rapporti problematici con le donne. A diciotto il modello di donna era sua madre, sempre servizievole e sottomessa a suo padre. Non corrispondeva neppure un po’ a quella ragazzetta bruna dagli occhi di cerbiatta, di cui per sua sfortuna era innamorato. Dall’alto dei suoi tacchi a spillo e infilata in un tailleur rosa confetto, si difendeva dal suo maschilismo enunciando tematiche di liberazione individuale. Impegnato com’era a districarsi tra la scuola, lo studio, le riunioni di cellula sempre più ravvicinate, non aveva tempo di sciacquarsi via di dosso i retaggi di una vecchia educazione. Purtroppo, però, si trovava a pensare a lei più di quanto avrebbe desiderato. Nel bel mezzo di una riunione, con una fitta al petto, s’illuminava nella mente la visione delle sue gambe affusolate, la morbidezza della sua pelle sconosciuta…Lui, ormai, non era più un ragazzino se pensava alla rivoluzione.
Sognava una grande donna che lo sostenesse innamorata e fedele, bevesse, ad occhi socchiusi, le sue scorribande mentali considerandolo un eroe.Lei era fin troppo sveglia per i suoi gusti. Lo rigirava sul dito a suo piacimento mancando agli appuntamenti e dandogli spesso dei punti in perspicacia e logica. Si erano lasciati, senza, forse, essersi mai presi.
Su di lui era caduta una cappa di malinconia. Si era buttato a capofitto nella contestazione a casa e a scuola tanto da suscitare nell’insegnante di letteratura un brivido di antipatia e delusione.
“Sono alti e bassi dei ragazzi che crescono” cercava di minimizzare sua madre.
“E’ l’ora di finirla con queste mattane. Da domani si cambia registro” tuonava suo padre che non aveva digerito il quattro in italiano.
Era rimasto a casa a studiare mentre veniva assassinato Martin Luther King. Mentre si compiva la terribile strage di Piazza delle 3 culture a Città del Messico. Mentre il manifesto dove gli atleti afroamericani Tommy Smith e John Carlos, alla premiazione olimpica dei 200 metri piani, con il pugno chiuso in segno di protesta, segnavano l’adesione al movimento dei Black Power.
Con la gente di casa era diventato chiuso e indisponente.
La notte dormiva a capitoli e, tra un capitolo e l’altro, si faceva domande alle quali non sapeva darsi buone risposte. Era preoccupato. Dopo i fatti di Valle Giulia, a Roma, dove gli studenti si erano scontrati con la polizia, era più consapevole. “Prima” era stato quasi un gioco scendere in piazza, gridare gli slogan in rima, sentirsi sicuro con la forza dell’unione, protetto dalla massa colorata che si riversava per le strade. “Ora” sapeva. Sarebbe potuto succedere anche a lui di trovarsi davanti all’”oggetto del contendere”. D’altronde non era affatto strano che esistessero diffidenze verso gli studenti. Nell’esperienza storica di chi aveva visto nascere il fascismo, essi potevano rievocare il ricordo dell’interventismo, dell’avanguardismo giovanile. Era ancora troppo fresca la ferita di chi aveva vissuto il fascismo e la guerra per fidarsi degli studenti e non considerarli un gruppo sociale pericoloso. Al momento opportuno sarebbe riuscito a rimanere al fianco del movimento operaio tradizionale, a suscitare speranze nell’opinione pubblica progressista, a scindersi dal gruppo dei violenti e degli “estremisti”? “Edizione della sera! Della sera! Della sera!
Italia! Germania! Austria!”
E sulla piazza, lugubremente listata di nero,
si effuse un rigagnolo di sangue purpureo!
………
Alla città accatastata giunse mostruosa nel sogno
la voce di basso del cannone sghignazzante,
mentre da occidente cadeva rossa neve
in brandelli succosi di carne umana. *

*(da La guerra è dichiarata di Vladimir Majakoskij)
I versi ruotavano incessanti, il cervello ne era pieno. Piazza, sangue, dolore, morte…
Un tumulto di idee rese più tragiche dal buio della notte.
E la paura. L’affanno. Il terrore.
Domani la manifestazione in piazza. Dovevano gridarla tutti assieme l’opposizione alla guerra. Forte, massiccia, compatta. I compagni lo aspettavano. Alle dieci in punto davanti al monumento. Non poteva tradirli. Oppure sì. Poteva. Poteva perché “ora” sapeva. Non ce l’avrebbe fatta. Un possibile scontro con la polizia, la fuga tra i carruggi, le gambe di ricotta, il cuore che scendeva nei calzini per rimbalzare direttamente in gola… Avrebbe tradito se stesso, la sua natura. Fino allora aveva giocato al rivoluzionario. Oltre non sarebbe stato più in grado di andare.
L’indomani, alle dieci, giaceva ancora avvoltolato su se stesso, nelle lenzuola sudate. In ritardo per la rivoluzione, ma giusto in tempo per sputare su quella faccia pallida, invecchiata in una notte, che lo specchio rifletteva nell’impietosa luce del nuovo giorno.
Fatti di una vita fa. Soltanto la psicanalisi potrebbe stabilire quanta influenza hanno avuto sui comportamenti e sulle decisioni. Bisogna tirare avanti, Alberto! Bisogna dimenticare. Ma questa sera il tarlo rode. “Loro” ci avevano creduto. Avevano creduto alla sua malattia, alla convalescenza in campagna nella casa della nonna. Avevano creduto a tutto pur di non crederlo un vigliacco. Ma rivedere i vecchi amici come se nulla fosse accaduto, non è mai stato facile. Specialmente questa sera. La sera dei bilanci.
Clara è già in fondo al viale. Le sue ultime parole se l’è portate via il vento.
Alberto compone un numero sul cellulare e, con la voce sicura di chi nella società occupa un posto di rilievo, disdice la cena per due prenotata oggi dalla sua segretaria.

Antonietta Cavallero